Vedere il problema

Ne ho visti tanti, ormai.

Ne ho incontrati di ogni tipo, di ogni età, settore merceologico e azienda.

Ho avuto a che fare con venditori di successo e tuttavia desiderosi di imparare e ancora capaci di mettere in discussione abitudini consolidate.

Ne ho trovati anche di non particolarmente validi, ma consapevoli di avere molto da apprendere.

Non sono mancati, infine, quelli che, benché palesemente insufficienti, credevano di conoscere già tutto, e non solo sulla vendita in senso stretto, ma anche sulle relazioni tra le persone, sul modo di rapportarsi e più in generale sull’opportunità di cambiare i propri comportamenti, cosa che asserivano essere, oltre che impossibile, del tutto inutile.

 

Sto parlando, com’è facile immaginare, di eccezioni piuttosto rare, anche se poi, quando le incontra, un formatore che si rispetti deve farci i conti e qualcosa deve pur dire.

 

Le resistenze di queste persone sono piuttosto ricorrenti e si esplicitano in frasi che ho imparato a memoria:

“È facile parlare, ma la mia realtà è diversa!”

“Da noi non può funzionare…”

“Non siamo noi ad aver bisogno di cambiare, ma i nostri capi!”

“Questo corso bisognerebbe farlo ai nostri clienti, non a noi!”

“Si tratta di belle teorie, ma noi non abbiamo tempo per stare ad ascoltare il cliente, dobbiamo vendere!”

“Sono fatto così e non credo proprio di poter cambiare. E poi, perché dovrei?Tanto è inutile…”

“Una buona relazione dipende da chi si incontra! Lei dovrebbe conoscere i clienti con i quali abbiamo a che fare!”

 

Non credo proprio di aver esaurito il campionario delle giustificazioni, delle obiezioni, delle difese, delle “fughe dalla realtà” che, certe volte, anche quando manifestano un disagio davvero profondo, riescono ad essere divertenti.

Pare infatti che la creatività che gli esseri umani riescono a mettere in campo per proteggere se stessi dalle minacce che vedono nei cambiamenti non conosca confini.

E pensare che, diversamente orientata, potrebbe produrre risultati strabilianti!

 

In un formatore che si misura con questa realtà possono nascere sentimenti avversi. Può farsi strada l’irritazione, che, provocando la reazione dell’altro, non aiuta a sviluppare un rapporto positivo; oppure può nascere un sentimento di comprensione, non nel senso che egli approvi o condivida che l’altro sia e pensi in un certo modo, ma che accetti questo fatto come possibilità, senza giudizio o opposizione.

 

 

Per quanto mi riguarda, sono giunto alla conclusione che queste persone, più di altre, hanno bisogno di aiuto e poco importa, in fondo, quanto ne siano consapevoli. Penso anzi che meno lo sono e più è evidente che si trovano in difficoltà.

Vi si trovano non tanto perché non vogliono o non riescono a migliorare la loro situazione, ma perché non ne vedono la necessità.

Il punto è precisamente questo.

 

Non ho mai amato la distinzione tra “vincenti” e “perdenti”.

Va di moda dire “quello è un vincente”, oppure “è un perdente”, ma considero questo modo di esprimersi piuttosto superficiale, e credo che questa rozza classificazione assomigli troppo a una sentenza senza appello.

 

Eppure c’è qualcosa che distingue chi, nella vita ha più possibilità di “vincere” da chi ne ha meno e troppo spesso “perde”.

Non si tratta tanto della capacità di affrontare e risolvere con successo una situazione problematica, quanto di vederla e di interpretarla correttamente.

Qualcuno ha scritto che il “perdente” non è tale perché non riesce a risolvere il problema, ma perché non lo vede.

 

Affrontare con successo un problema può dipendere da molti fattori, fra i quali le capacità, i mezzi disponibili, l’influsso di fattori esterni solo in parte controllabili.

Ma più che da ogni altra cosa dipende dall’averlo colto, cioè dall’aver percepito la situazione problematica come tale, dall’averne correttamente individuato le dimensioni e le implicazioni.

Se questo è vero, è evidente che il livello di consapevolezza gioca un ruolo non indifferente nella realizzazione del successo personale.

 

Torniamo ai nostri contestatori. Essi non vedono il problema che è dentro di loro. Sono lontani anni luce dal percepire che il problema consiste nel loro modo di vedere la realtà. Non li sfiora il dubbio di essere essi stessi il problema.

E per questo “perdono”. Perdono opportunità, perdono affari, a volte perdono tempo, altre volte relazioni.

 

Eppure un antidoto a tutto ciò esiste ed è dato dalla proattività, cioè da quell’atteggiamento, da quella disposizione di fondo che caratterizza ogni esistenza riuscita. Non credo di aver mai incontrato una persona di successo, in nessun ambito, che non ne fosse profondamente animata.

 

Il venditore è una persona il cui lavoro si fonda sulla qualità delle relazioni che costruisce e un atteggiamento proattivo è ingrediente indispensabile per creare rapporti stabili e proficui. Un semplice esempio: in linea di massima, i clienti tendono a ricordarsi del venditore nella misura in cui egli agisce per farsi ricordare. È chiaro che, in alcune circostanze, ciò può non essere vero, ma l’adozione di questo principio rimane un elemento di sana disciplina mentale, perché educa alla responsabilità. Il problema sorge quando una persona assume l’eccezione – il cliente per il quale si è fatto di tutto e si mostra ingrato – come paradigma della realtà e su di esso costruisce un alibi.

 

Trattare esaustivamente della proattività in uno spazio così breve è impossibile. Mi limiterò dunque a formularne due principi fondamentali.

 

  1. Considerati responsabile di quanto ti accade.

La situazione nella quale ciascuno di noi si trova è la conseguenza delle scelte che ha fatto. Non tutti sono disposti ad ammetterlo.

Molti considerano più facile e comodo attribuire la responsabilità di quanto accade loro al destino avverso, alle circostanze, all’ambiente, alla malevolenza o all’influenza degli altri.

Sentono di non potersi opporre a queste forze ostili e, coerentemente, non vi si oppongono, se non con la protesta. Aspettano che qualcosa accada. In caso contrario, maledicono la sorte avversa.

In realtà, ci piaccia o no, siamo in larga misura responsabili di quanto ci accade.

Questo vale per le relazioni con gli altri, per i nostri risultati professionali e perfino, almeno in certi casi, per il nostro stato psicofisico.

 

Essere consapevoli di ciò induce a

  • riflettere sulla propria vita e sulle proprie scelte
  • comprendere come affrontiamo i problemi
  • fare chiarezza su ciò che ci attendiamo da noi stessi
  • capire che cosa gli altri si aspettano da noi
  • prendere le decisioni necessarie
  • agire coerentemente

 

Il primo risultato di questo processo è un incremento dell’autostima.

Spesso la mancanza di autostima non deriva dai nostri insuccessi, ma da ciò che non abbiamo saputo fare per evitarli o per venirne fuori. La caduta dell’autostima è la conseguenza della passività.

Se invece possiamo dire a noi stessi di avere fatto tutto quanto potevamo per affrontare al meglio la situazione, perché mai dovremmo sottostimarci?

 

 

  1. Sposta l’attenzione dal “perché” al “cosa”

Domandarsi il perché di ciò che ci accade è essenziale per comprendere la realtà; interrogarsi sulle ragioni degli avvenimenti permette in alcune occasioni di interpretarli e agire, quando è possibile, per governarli.

Tuttavia, non sempre la domanda riguardante il perché è utile: vi sono alcuni particolari situazioni, che esigono si cambi registro – non solo relativamente al linguaggio, ma anche al modo di pensare – e si passi dalla domanda sul perché a quella sul che cosa.

Esiste infatti un uso improprio della domanda “perché” ed è quello che riguarda la situazione in cui ci si trova.

“Perché non riesco a fare quel che dovrei?”

“Perché non riesco a organizzarmi?”

“Perché non ho avuto successo nella vita?” “Perché lui è più bravo di me e  riesce dove io fallisco?”

“Perché lui si comporta in quel modo con me?”, “Perché le cose mi vanno male?”

L’elenco delle domande di questo tipo potrebbe essere lunghissimo, con un unico risultato: affliggersi, farsi del male e non modificare alcunché.

Le si potrebbe definire “le domande dell’impotenza”. Ancora una volta l’attenzione deve rivolgersi non solo al linguaggio, ma soprattutto alle strategie mentali.

Chi è convinto che anche di fronte alle situazioni più problematiche si possa e si debba agire, si pone altre domande:

“Che cosa dovrei modificare nel mio modo di fare per riuscire a fare quel che dovrei?”,

“Che cosa può procurarmi più successo in quel che faccio?”,

“Che cosa posso fare per essere abile come lui, cosa posso osservare e imparare?”,

“Che cosa posso fare affinché gli altri decidano di modificare il loro comportamento verso di me?”.

La domanda sul “che cosa” guarda al futuro e dischiude un orizzonte di possibilità e di azione, mentre la domanda sul “perché” induce rassegnazione al dato di fatto, constatazione di ciò che appare immodificabile: “sono timido perché ho avuto un’infanzia difficile”. Traduzione: “Mi dispiace di essere così, e in questa situazione non mi trovo neppure tanto bene, ma non posso farci niente perché le forze contro le quali dovrei combattere sono troppo potenti.

In realtà, noi abbiamo la scelta: possiamo passare l’esistenza a lamentarci di quel che ci accade o sforzarci di determinare gli eventi. È, in fondo, la differenza tra l’amletico essere o non essere, tra, come osservava Shakespeare, il “subire i dardi di una sorte oltraggiosa o armarsi contro di essi e, affrontandoli, vincerli”.

mercoledì 12 gennaio 2022

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