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Il Coraggio

Che cosa è il coraggio? Certo le definizioni non mancano, ma non è sulla definizione che vogliamo fermarci, quanto sull'essenza di questo sentimento, perché è una delle caratteristiche che si è soliti attribuire a un leader. Fu coraggioso oppure no il generale Kutùzov quando, ritirandosi abbandonò Mosca nelle mani di Napoleone? Doveva combattere, sostengono alcuni storici, e la stessa cosa voleva una parte del suo stato maggiore. Fece benissimo, dicono altri. Da alcuni fu detto vigliacco e traditore, da altri brillante e coraggioso stratega. Gli eventi gli diedero ragione: Napoleone si trovò in grave difficoltà e la conquista di Mosca fu la sua trappola, l'inizio della tragica fine della sua spedizione e della sua parabola di conquistatore. Come in questo caso, è l'esito degli eventi a valutare storicamente la validità di una scelta e il giudizio è retrospettivo, ma nel momento in cui Kutùzov prendeva la sua decisione non poteva conoscerne il risultato. Poteva immaginarlo, ma non poteva esserne certo. Questo è ciò che accade a un leader quando assume una decisione, tanto più se è contrastata: può calcolarne le probabilità di successo, ma non può prevederne con certezza l'esito. È in casi come questi che gli è chiesto di avere coraggio, tanto più che, pur potendo qualche volta avvalersi del parere di buoni consiglieri, a lui spetta assumersi la responsabilità della decisione. I consiglieri, quelli che sanno "come si dovrebbe fare", ma che per la posizione che rivestono non sono direttamente coinvolti nell'azione, operano infatti "a distanza di sicurezza": se la bomba che il coraggioso sta disinnescando esplode, non saranno scalfiti dalle schegge, mentre le l'operazione riesce si attribuiranno il merito di aver dato buoni consigli. Perciò un leader è sostanzialmente solo e un leader coraggioso lo è più di altri. Troverà sempre sulla sua strada chi lo incoraggia e chi lo frena e entrambi porteranno buone ragioni e dunque entrambi sarà saggio ascoltare, ma alla fine, quando dovrà decidere, sarà solo.
  
A volte si confonde il coraggio con la temerarietà. Anche di Napoleone si dice che fu coraggioso a spingersi fino a Mosca, mentre in realtà fu solo temerario. Nella diversità delle condizioni dei due condottieri - di attacco per Napoleone e di difesa per Kutùzov - in una cosa la loro situazione era simile: lo stato di necessità. Dopo la battaglia di Borodino, che non fu realmente vinta dai francesi e non fu realmente persa dai russi,  Napoleone avrebbe ancora potuto tornare indietro e probabilmente sarebbe riuscito a salvare una parte del suo esercito. Decise invece di proseguire in direzione di Mosca, spinto, più che dal suo coraggio, dalla sua ambizione di conquistatore. Voleva diventare il padrone dell'Europa e illuminarla con le sue leggi e la sconfitta dello zar Alessandro era funzionale, anzi indispensabile, a questo disegno. Kutùzov, dal canto suo, doveva scegliere tra dare battaglia, perdendo l'esercito, o abbandonare Mosca e ordinare agli stessi moscoviti di fare la stessa cosa. In realtà neppure lui aveva molta scelta e decise sulla base di uno stato di necessità. La differenza fra i due consistette nel fatto che la visione di Napoleone fu temeraria e temeraria fu la sua strategia, mentre la scelta di ripiegamento di Kutùzov, ancorché apparentemente vile, fu dettata dalla saggezza.
 
E furono coraggiosi gli abitanti di Mosca che abbandonarono la loro città e la lasciarono in mani nemiche? In fondo le armate di Napoleone avevano già conquistato Vienna e Berlino senza che alcun viennese o berlinese si fosse sentito in dovere di abbandonare la propria casa. In quelle città, durante l'occupazione francese si viveva benissimo. I conquistatori erano così simpatici... Tolstoj, nel suo Guerra e pace, dice a chiare lettere che questo i russi non lo potevano fare, perché era contrario al loro spirito, in contrasto con l'anima russa, ed era per loro impossibile anche il solo pensiero di una convivenza con i conquistatori. Furono dunque coraggiosi, perché fuggirono, o meglio se ne andarono, ma non perdettero la loro anima. Lasciarono le loro case, ma conservarono la loro identità. Se non l'avessero fatto, non avrebbero più potuto guardarsi in faccia l'un l'altro senza vergogna  
 
Come sostiene lo storico ateniese Tucidide nella sua Storia della guerra del Peloponneso, "Sicuramente i più coraggiosi sono coloro che hanno la visione più chiara di ciò che li aspetta, così della gioia come del pericolo e tuttavia l'affrontano". Gli abitanti di Mosca ebbero una visione chiara di ciò che li attendeva se fossero rimasti in città e altrettanto chiara fu la visione del danno che avrebbero provocato a Napoleone se gli avessero fatto trovare una città deserta. Abbandonando le loro case e i loro averi  andarono incontro a disagi di vario genere. C'erano fra loro persone che avevano poco da perdere, ma ce n'erano sicuramente altre che avevano molto da perdere. È facile pensare che a questi ultimi l'abbandono di ogni avere costasse molto di più. 

Non è vero quello che dice Alberto Moravia nel suo racconto "L'incosciente": "Non c'è coraggio e non c'è paura... ci sono soltanto coscienza e incoscienza... la coscienza è paura, l'incoscienza è coraggio." Se questo fosse vero, bisognerebbe concludere che chi compie imprese nelle quali è necessario trovare quello slancio personale che si chiama coraggio di osare, lo fa senza esserne consapevole, senza alcuna capacità di valutare rischi e benefici, senza riflettere e dunque soltanto dietro la spinta di una non-coscienza a proposito di quanto sta facendo. Ciò è semplicemente inammissibile e anche offensivo, perché rappresenta la negazione di ogni riconoscimento nei confronti di coloro che hanno il coraggio di fare quello che altri, presunti consapevoli, non immaginano neppure. Se fosse vero che incoscienza è uguale a coraggio, Charles Lindberg, il primo che trasvolò l'atlantico in solitaria, solo per citarne uno, dovrebbe essere considerato un incosciente. Altri aveva tentato l'impresa prima di lui e alcuni erano morti. Probabilmente lui fu più fortunato, ma la spiegazione del suo successo non si riduce a questo. Egli pianificò l'impresa nei minimi dettagli, perfettamente cosciente dei rischi, ma anche di tutto quanto occorreva fare per limitarne la portata. 

Aveva dunque ragione Winston Churchill quando disse che "Il coraggio è la prima delle qualità umane, perché è quella che garantisce le altre".  Il coraggioso, infatti, oltre che previdente e accorto pianificatore, è anche una persona coerente con i propri valori. Quando il grande statista inglese disse ai suoi connazionali "Andremo fino in fondo, combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e degli oceani, combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell'aria, noi difenderemo la nostra Isola, qualsiasi costo possa avere, combatteremo sulle spiagge,combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade,combatteremo sulle colline" mostrò con estrema determinazione e chiarezza che cosa significhi essere coerenti con i principi sui quali si regge la difesa della libertà contro la tirannia. Rivolse queste parole agli inglesi in un momento drammatico della loro storia, un momento nel quale le forze militari del Terzo Reich dilagavano incontrastate per l'Europa e pareva che nulla potesse fermarle. Questa coraggiosa dimostrazione di coerenza provocò il rafforzarsi di altre qualità che sostennero lo sforzo bellico inglese fino alla fine: pazienza, spirito di sacrificio, abnegazione, consapevolezza di unità. Il suo coraggio garantì lo sviluppo nel popolo di altre qualità necessarie a far fronte agli eventi.

"Il coraggio, se uno non ce l'ha, non se lo può dare" dice Don Abbondio al Cardinale Federigo nei Promessi Sposi. Questo è vero per chi non ha una visione da opporre alla paura. Non a caso, infatti, il cardinale rivolge a Don Abbondio alcune domande su che cosa egli pensasse quando decise di abbracciare il ministero ecclesiastico e quali garanzie di sicurezza credesse gli fossero state promesse. Echeggiano a questo proposito le parole di Corneille: "Gli uomini coraggiosi lo sono fin dall'inizio" e, possiamo aggiungere noi, non per un dono ricevuto, ma per la visione che li sostiene.

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